Tutto stava andando
abbastanza bene. Poi, nel 1972, si licenzia senza preavviso perché
ustionato dai tizzoni della scrittura. Nei nove anni successivi ingaggia una
lotta impari immergendo le mani nella pece del proprio passato nel vano
tentativo di trasformarlo in parole.
Nel 1983 si rende conto che non funziona. Sarà la
punteggiatura, dice. Anche la liquidazione percepita si è ridotta ad una
virgola.
Nel 1984 prova con la poesia: non è illegale, pensa. Un po’
tormento personale e un po’ etica.
Riceve tempestivamente risposta da un editore e legge con
trepidazione: "Ci siamo
trasferiti".
Pensa a Kafka, a Van Gogh. A sua zia Mirne, proprietaria del
bilocale in cui egli ammassa le risme, che non lo saluta da qualche tempo.
Nel 1986, Deo gratias!, si
dà alle stampe; in particolare quelle dell'ottocento di sua zia Mirne, che
stacca dalle pareti. Quattro cupe e consunte riproduzioni dell'Arcimboldo: si
distinguono ormai solo tre sedani e due carote. Prova a smerciarle al mercatino
dell'ultima domenica del mese, ai bordi della tangenziale.
Poco altro da aggiungere: una pleurite nell'anno successivo,
irreparabile ossidazione del radiatore dell'automobile nel 1989, i denti
guasti. Affronta gli anni novanta con una gastrite ed un biglietto omaggio per
Pocahontas. Poi di lui solo rare tracce sparse, come sangue occulto nelle feci.
Speso tutto. Niente più. Tasche vuote. Cuore sgonfio.
Stanco. Le uniche parole rimaste per dire le parole: provare, my friend. Ancora.