Nonostante il gran caldo avevo deciso di passare la domenica
in casa. Si erano accumulati nel corso della settimana diversi ritagli di
giornali che mi ripromettevo di leggere con tranquillità. Articoli che
immaginavo interessanti, in larga parte provenienti dai supplementi letterari
dei quotidiani che, dopo la prima occhiata, di solito commento con un: "bello, questo lo leggerò con calma". Accesi la ventola ed estrassi
dal mucchio un foglio a caso: "Il cavallo
di Torino, ultimo film di Bela Tarr: quando Nietzsche singhiozzò".
Suonarono al cancello. Sarà Matteo, pensai, un bravo ragazzo
senegalese che passa tutte le domeniche, anche se in genere più tardi, al quale
do sempre due euro. Mi affacciai alla finestra: era Tom Cruise. Io ero ancora
in pigiama.
Mi chiedeva gentilmente di scendere, sostenendo la richiesta
con dei gesti e indicando la mia automobile parcheggiata, o forse lo
specchietto, che in effetti era leggermente spostato, ma non riuscivo a capire
bene. Ero in dubbio se aprire subito il cancello perché non girano belle voci
riguardo a quelli di Scientology. E poi non mi andava di scendere in pigiama.
Per la verità anche lui non era conciato benissimo, seppure pareva trattarsi di
un "non conciato benissimo"
molto griffato. Non so, non me ne intendo molto, ma la percezione era quella.
Fui tentato di dirgli "non importa, vada pure, ci penso io, non si preoccupi...", ma
lui insisteva parecchio continuando a parlare , a gesticolare, mentre io seguitavo
a non capire. Mi dispiaceva sembrare scortese, e comunque se fossi rimasto alla
finestra non ne saremmo usciti, allora gli dissi di attendere un momento; mi
cambiai in fretta, senza aprire il cancello, poi scesi.
Quando mi vide comparire sulla porta sorrise ed allargò le
braccia come per accogliermi. Con una buona padronanza della lingua italiana,
migliore di quanto non sia la mia della sua lingua, mi spiegò, scusandosi in
continuazione, che aveva accidentalmente urtato lo specchietto della macchina
parcheggiata mentre guidava guardando la cartina. "Io credo perso", concluse.
Mentre lo raggiungevo al cancello, notai delle lucine che
lampeggiavano sulla punta delle sue scarpe da running quando muoveva i piedi;
per qualche istante, incuriosito, gli guardai alternativamente il viso e le
scarpe, pennellando verticalmente la sua figura. Lui, ampliando il sorriso,
disse sospettoso: "C'è qualcosa che
no good?". Io gli dissi che andava tutto bene, di stare tranquillo e
di non preoccuparsi per lo specchietto, si trattava solo di un graffio: "se giri qui in fondo a sinistra e poi a
destra", continuai, "vedrai
la Cremeria Italia sull'angolo, dritto fino al semaforo e poi a destra imbocchi
la tangenziale". Non avevo idea di dove dovesse andare, ma pensai
potesse essergli utile almeno uscire dal quartiere. Ci presentammo. Dissi
"ciao, sono Ezio"; lui mi
porse la mano dicendo "ciao, Tom".
"Grazie",
aggiunse, "molto grazie Esio"
mentre dispiegava la cartina e poi la richiudeva, quindi la riapriva girandola
più volte ed indicando dei luoghi a casaccio. Aveva le unghie molto curate,
perfette direi, le dita e i dorsi delle mani erano completamente privi di
peluria. Non sembrava una cartina aggiornata, anzi, secondo me era molto
vecchia, del tipo di quelle che si trovano all'associazione di recupero e
riciclo Mandacarù. Mi parve di capire che volesse fare un giro, avere delle
informazioni per visitare dei luoghi, insomma andare da qualche parte, non so,
ma certo è che la cosa iniziava a pesarmi. E poi, a dire il vero, io non
conosco molti posti. Sì, qui abbiamo i laghi, le valli, Santa Giulia, il
Capitolium, eccetera, ma ci sono andato raramente, non giro molto, non mi
piace. Mi guardava aspettando una risposta. A che cosa?
"Quando tu vuoi,
scusa noi go", disse gentile, ma perentorio, avvolgendosi i fianchi
con la cartina come fosse una gonna. Ma dove, santo cielo, andare dove?,
perché?
Mi arresi; non saprei dire a che cosa, ma mi arresi
lasciandomi assorbire da quella situazione indefinita e sospesa senza opporre
altra resistenza e senza sapere dove mi avrebbe portato, ma, soprattutto, senza
sapere dove l'avrei portato.
La prima e unica cosa che mi venne in mente fu quella più
stupida e banale, tant'è che a ripensarci mi vergogno ancora: portarlo a Ghedi
a veder partire o arrivare gli aerei del Sesto Stormo, i cosiddetti Diavoli Rossi. E' un nesso idiota, lo
so, un'idea quasi offensiva, ma non me ne vennero altre. Mio padre mi ci
portava quando ero piccolo. A volte si passavano interi pomeriggi immersi in
un'afa solida e appiccicosa senza vedere volare nient'altro che insettacci.
Altre volte andava meglio. Si poteva scorgere la pattuglia da lontano, mentre
lasciava gli hangar. Poi queste figure cupe e tremolanti nella calura si
disponevano a fondo pista, spingendo al massimo il reattore. "E' un test", diceva mio padre
abbassandosi un po', "per vedere se
è tutto a posto. Lo chiamano l'urlo del contribuente". Poco dopo ci passavano sopra le teste
uno ad uno in un enorme frastuono. In quegli istanti cercavo sempre la sua
mano. Quando tornavamo alla macchina per fare rientro a casa, le prime parole
che ci scambiavamo non si capivano mai bene. Alcune notti sognavo le facce dei
piloti che guardavano giù, verso di noi.
Comunque c'è da dire che anche Kafka venne a Brescia a
vedere gli aeroplani, anche se non quelli militari e quindi, tutto sommato, non
sarebbe apparso un invito offensivo, ma non lo feci.
Mentre pensavo di astenermi dal proporgli Ghedi, i led delle
sue scarpe emettevano una luce via via sempre più fioca. Messo male, mi venne
da pensare: si è perso in via Beniamino Simoni, zona Ponte Crotte in Brescia,
ha una cartina di trent'anni fa e sta pure finendo la pila nelle scarpe.
Incrociammo di nuovo i nostri sguardi; il suo sembrava
offrire un'immagine di malcelata tristezza. In realtà non credo fosse triste,
non ce n'era alcun motivo, tuttavia quel suo viso da bambolo conteneva un po'
di malinconia, questo era innegabile. Non so, forse il mio perdurante stato di
indecisione sul da farsi l'aveva intristito, ma non penso. D'altronde io non mi
sentivo indeciso; non sapevo quale decisione dovessi prendere, è diverso.
Mi disse: "Look Isio,
possibile lavare car?". Si dilungò in alcuni dettagli, ma nonostante
il suo buon italiano non riuscii a comprenderlo. Faceva dei giri di parole
inconcludenti mentre si sforzava di trovare le parole giuste. Comunque dissi
sì, d'accordo, che altro potevo dire se non ok, salgo un attimo a spegnere la
ventola e ti accompagno. Gli chiesi se desiderava salire a darsi una
sciacquata, bere qualcosa o andare in bagno. Aspettai la risposta con ansia
mentre immaginavo la condizione del mio bagno, ma disse "no, grazie, poco fretta, stress...".
Bene, pensai, io non poco fretta, ma
mi sentivo già esausto.
Pensai di portarlo al lavaggio della Rinascente, dove per
sei euro fanno un buon lavoro. Lungo la strada gli avrei mostrato il fiume
Mella, le storiche e fatiscenti fornaci di Ponte Crotte, un po' di campagna e
la Ori Martin, l'acciaieria dentro la
città. Poi la Rinascente, però senza entrarci perché sinceramente non avevo
voglia di dedicare tutta la domenica a questa cosa. Sulla tangenziale
Montelungo, ad un certo punto, un coniglio ci attraversò la strada. "Rabbit!" dissi con sicurezza. Lui
rispose: "Yes, bunny, very fast".
Al lavaggio, per fortuna, c'erano poche macchine in coda. Decisi che avrei
pagato io. Lui cercò di fermarmi, insistette, io pure, inscenammo le solite
moine di circostanza poi disse: "Ensio,
molto grazie". Bene; il solo pensare che di lì a poco le due ruote
anteriori sarebbero state intercettate e l'automobile trascinata dentro la
postazione di lavaggio, mi permetteva di intravedere una fine e mi dava una
certa serenità. A volte basta poco.
L'addetto al prelavaggio mi diede il resto, si abbassò un
poco per sbirciare nell'abitacolo come se fossimo in dogana, ci guardò e
annuendo sorrise. Io dissi a Tom: "tira
su il coso altrimenti entra l'acqua".
Quando i vetri furono pieni di schiuma e prima dell'avvio
dei rulli, le sue scarpe si spensero completamente. Lui non ci fece caso e mi
disse: "Dopo bello, io vado noze in Fraciacorta,
guardiamo cartina".
Bello, molto bene, risposi, intuendo il suo progetto. Per un
attimo pensai di aggiungere "tu guardare anche cantina
in Franciacorta", ma rinunciai. I rulli occuparono tutto il parabrezza
e i finestrini laterali mentre dentro si fece una luce blu. Lui continuava a
fare cenno di sì con la testa. Era rilassato, contento.
Mentre le goccioline d'acqua si disperdevano velocemente sul
vetro soffiate dall'asciugatore, mi disse: "Isio, senti,vuuu..., molto rumore, come Orli Matin... perché in
città?". Strinsi le labbra guadagnando del tempo, poi per fortuna
uscimmo dal tunnel. Si avvicinarono in due per
perfezionare l'asciugatura con dei panni. Preparai due euro e li
consegnai ad uno dei due tipi, il quale ringraziò. L'altro, guardandoci, disse
sgarbatamente: "il cofano era già
rigato, non siamo stati noi". Quando mi vide dare la mancia Tom disse:
"No Isio, faccia io". Fu
solo allora, nel dirgli "non importa,
lascia stare" che vidi un abito penzolare sui sedili posteriori. Il
cellofan che lo ricopriva era costellato di goccioline luminose. Un'etichetta
di carta si stagliava sul nero della giacca. Portava la scritta: "For presto. Mister Tom Cruise".
Scese dalla macchina e ci girò tutto intorno. Si fermò
davanti al cofano e mi guardò soddisfatto, sorridendo. Dalla sua portiera
aperta entrò un po' d'aria e fece muovere il cellofan che emise un soffio breve
e delicato, come se sul sedile posteriore qualcuno stesse sbuffando.
Mi riaccompagnò a casa. La signora Franca stava bagnando il
vialetto. Quando ci vide scendere, mi disse: "E' passato Matteo, forse torna dopo". Tom disse: "Buongiorno signora" e poi
rivolgendosi a me "Matteo, molto
bello nome".
Con un evidenziatore giallo tracciai sulla cartina il
tragitto per arrivare sino ad Erbusco; quella, difatti, avevo scoperto essere
la sua destinazione, perchè durante il rientro mi aveva detto: "Non bene dopo Elsio, guardiamo cartina paise
come Etrusco".
Mi assicurai che avesse ben compreso il percorso e per un
attimo ebbi il timore che potesse chiedermi di accompagnarlo alla festa di
nozze. Lo invitai nuovamente a salire per
prendere qualcosa prima di ripartire. Disse: "grazie che no, solo molto ringraziare, Esio tu molto amico, io very...
non so, molto grazie."
Mentre prese posto alla guida, forse per un riflesso, dal
buio della pedaliera uno dei led della scarpa destra emise una debole luce. Gli
feci ciao più volte con la mano, lui ricambiò con un largo sorriso poi partì.
Il vestito dietro riprese a dondolare. Lo seguii con lo sguardo fino in fondo
alla via. Lo stop di destra era fuori uso.